JOHANN SEBASTIAN BACH
Sei Suonate â Cembalo concertato è Violino Solo
BWV 1014-1019a
el repertorio violinistico, clavicembalistico, persino pianistico, le Sei Sonate per violino e clavicembalo concertato di Bach sono considerate una delle pietre miliari della letteratura musicale da più di un secolo e mezzo, ci si potrebbe dunque chiedere il perché di una ennesima registrazione integrale. Sono passati quasi quarant’anni dalla pionieristica registrazione, la prima su strumenti d’epoca, suonata da Sigiswald Kuijken e Gustav Leonhardt, che non a caso ottenne un Diapason d’Or. Da allora la filologia musicale applicata alle esecuzioni ha fatto molta strada, e lo studio degli “strumenti originali”, delle “prassi antiche”, è divenuto materia di insegnamento in ogni conservatorio. Tuttavia le esecuzioni “storicamente informate”, dopo l’iniziale rivoluzione, non hanno mancato di adeguarsi alla moda interpretativa, che però segna un distacco netto da quella che era una diversa sensibilità rispetto alla velocità che avevano gli autori del XVII, XVIII, fin verso alla fine del XIX secolo.
Nel 1492, anno della scoperta dell’America, all’inizio dell’età moderna, volendo coprire rapidamente la distanza da Roma a Firenze, per esempio, ci si impiegava una intera giornata. Nonostante il progresso umano dei secoli seguenti, lo stesso sarebbe avvenuto volendo coprire la stessa distanza nel 1817, un paio di anni dopo il Congresso di Vienna, quando Beethoven forniva le indicazioni di metronomo, strumento allora nuovo per una misurazione precisa dei tempi musicali, per le sue sinfonie: da Roma a Firenze, andando di fretta, ci si impiegava ancora una giornata. Non così con l’avvento della ferrovia, del treno, non più.
La percezione del tempo, lo scorrere delle giornate, il modo di impiegarle, con l’avvento e la diffusione della rivoluzione industriale influì, poco a poco, sulle abitudini e sulla coscienza stessa delle persone. Il tempo divenne, sì, “prezioso”, ma parallelamente da consumare il più rapidamente possibile, in tutti i campi che ne coinvolgano lo scorrere. La velocità, da sempre apprezzata nel suo aspetto utilitaristico (si pensi ai corrieri appunto, dal nome eloquente) si trasformò, col procedere dei processi innescati dalla rivoluzione industriale, in un valore assoluto. Per esempio si arriva a un Futurismo capace di esaltarla con lo slancio artistico che conosciamo. Anche per la musica il virtuosismo divenne soprattutto la capacità di eseguire quante più note nel minor tempo possibile, spingendo l’evoluzione della tecnica proprio in questo senso. Si potrebbero citare molte voci severamente critiche, durante tutto l’Ottocento, rispetto al fenomeno di accelerazione delle esecuzioni, si parla della musica dei grandi maestri che a causa delle smanie degli interpreti diventa grottesca, ridicola, tuttavia non si trova nessuno che parli invece di quel “rallentamento dei tempi”, che sarebbe un portato del romanticismo in musica, evocato dalla musicologia odierna per spiegare metronomi altrimenti troppo rapidi forniti persino da giganti della musica quali Beethoven, Chopin, Schumann…
Le indicazioni metronomiche di gran parte del XIX secolo, in quasi tutti gli autori per la prima metà del secolo e oltre, vanno lette con il dispositivo brevettato da Maezel e così tanto apprezzato da Beethoven o da Verdi come fosse, il metronomo, un pendolo. Un pendolo che ha la massima oscillazione non in basso ma in alto, e che può essere regolata, modificata nel tempo della sua percorrenza. Per spiegare le indicazioni metronomiche “troppo veloci” di Beethoven e di tantissimi altri autori – e lo sarebbero! - basta interpretarle come tutt’ora i fisici leggono il moto di un pendolo: il conteggio si compie alla fine dell’oscillazione, esattamente come il battere del braccio di chi solfeggia, proprio come il bastone usato per dirigere voci e orchestra da Jean-Baptiste Lully: “uno E due” (ovvero u-no, du-e); dunque non “uno… due... “. Si tratta in sostanza della stessa idea dell’uso del pendolo di Galileo per i musicisti ben prima dell’invenzione del metronomo, fin dal XVII secolo, per dare modo agli autori di indicare la velocità esatta dei propri brani, in particolare con lo strumento di Etienne Loulié, il chronomètre, presentato nel suo Élements ou principes de musique del 1696, pensato per rendere regolabili le misurazioni del pendolo a seconda delle varie andature musicali. Se non abbiamo indicazioni di cronometro o pendoli di Bach, abbiamo modo di dedurre in generale le velocità di quell’epoca, prima che la smania degli esecutori dell’età industriale, per un virtuosismo inteso tutto nel senso della velocità, non ci abituasse a rapidità vertiginose, facendoci di conseguenza percepire le andature dell’epoca come lente. Quei tempi antichi, all’opposto, rendono i dettagli, i disegni melodici e armonicamente densi delle frasi musicali perfettamente udibili - godibili! – piuttosto che trasformarle, com’è avvenuto, in raffiche di note, certo apprezzate da tutti, ma per la velocità in cui vengono eseguite tutte senza comprometterne vigore, intonazione, qualità timbrica.
Proprio questa è la novità della registrazione delle Sei Sonate per violino e clavicembalo di Bach così come vengono proposte: non c’è solo l’attenzione il più possibile scrupolosa all’incontrovertibile fatto storico su tempi diversi in uso almeno fino a metà Ottocento e oltre, aspetto finora trascurato dai musicisti anche “storicamente informati”, i quali anzi negli ultimi decenni hanno spinto ancora più a fondo l’acceleratore sulle velocità che erano diversamente pensate dagli autori. C’è anche, in questa esecuzione, l’attenzione a tanti particolari che emergono grazie alla visione davvero diversa del tempo musicale, peraltro basandosi, i due interpreti, sia sulle edizioni critiche moderne che su diversi manoscritti. Si tratta di una visione che permette di indagare con una profondità ancora maggiore di quanto non fatto finora le testimonianze dell’epoca (metodi di canto e strumento, abbellimenti scritti o da improvvisare anche nei movimenti rapidi, lettere, commentari, iconografia…), in una ricerca appena avviata, che è tuttavia abbastanza matura da indicare la strada per l’interpretazione “nuova” di un capolavoro della letteratura musicale, in un modo che si può senza esitare definire rivoluzionario nella storia dell’esecuzione.
Questa interpretazione si propone anche, infine ma non da ultima, la riscoperta di un’andatura musicale che rispecchi il tempo dato dal camminare a piedi, con tutti i dettagli che solo l’occhio, l’orecchio e il naso del viandante possono consentire di cogliere, vedendo la rapidità del cavallo cavalcato al galoppo come il massimo possibile della rapidità. Un tempo musicale, quindi, che si adegui allo scorrere delle giornate così come all’epoca di Johann Sebastian Bach si potevano vivere.
Al di là di ogni discorso filologico, insomma, questa registrazione è un viaggio estremamente affascinante e rivelatorio, tra rigore storico e approccio alla musica diremmo filosoficamente differente: in un’epoca in cui continuiamo a correre, comprensibilmente, e in tutti i sensi (da Milano a New York, ma anche nel processare un documento o nel prepararci il più velocemente possibile un pasto, per “non perdere tempo”, come se il cibo non fosse ciò che ci mantiene in vita) sarebbe bello oltre che sano considerare l’arte musicale fruendone in modo diverso, come un momento contemplativo, non concitato, anzi di pacifico arricchimento.
Lasciamo dunque, grazie a questa esecuzione che riprende le andature antiche, parlare la musica, donandole quindi regalandoci il tempo di raccontare tutto ciò che ha da dirci, secondo il genio degli autori che a quei tempi l’avevano pensata.
Lorenzo Biagini
associazione culturale